Il tempo delle voci familiari

Esperienze relazionali precoci e sviluppo emotivo.

 

Ci sono voci che ci abitano da sempre.

Sono i gesti imparati senza accorgercene, il rumore di passi sul pavimento, i modi di guardarsi. Ma anche i profumi che annunciano il pranzo, le risate che filtrano da una stanza all’altra, i canti stonati durante i viaggi in macchina.

Queste voci ci hanno fatto da specchio, da cornice, da orizzonte.

Ci hanno insegnato a vedere il mondo. E anche se oggi abbiamo altre stanze, altre persone, altre vite, continuiamo a portarle con noi in un dialogo continuo. Ed è in questo coro di voci antiche, che risuonano tra le mura di casa, che prende corpo la nostra famiglia: non solo il luogo in cui siamo cresciuti, ma il tessuto di relazioni e di significati che ha dato forma a chi eravamo e a chi potevamo diventare. Proprio in questi primi scambi, ripetuti e condivisi, è nata la lente con cui leggiamo il mondo, percepiamo noi stessi e abitiamo le relazioni.

Non si tratta di cercare colpe, ma di ascoltare queste voci.

Il punto infatti non è restare intrappolati nel passato, né puntare il dito su chi c’era. Ma nemmeno fare finta di nulla. Perché è lì, in quel primo intreccio di relazioni, che abbiamo imparato, spesso in modo implicito, cosa era “giusto” sentire e cosa era meglio evitare. Quali emozioni fossero ammesse e quali silenzi fossero necessari. Quali gesti avvicinassero l’altro e quali invece lo respingessero. In questa matrice cognitiva e affettiva che è la famiglia abbiamo quindi interiorizzato come si sta nella vicinanza e cosa succede quando invece si litiga. Abbiamo iniziato a dare forma a ciò che sentivamo e a regolare le nostre emozioni.

È quindi in queste esperienze relazionali precoci, che si origina il nostro modo di percepire e vivere noi stessi. C’è chi, ad esempio, crescendo in un contesto in cui veniva lodato solo quando era “bravo” e disponibile, ha finito per identificarsi con quel ruolo e ancora oggi fatica a dire di no, a distinguere il proprio valore da ciò che offre agli altri. Chi ha imparato che le emozioni andavano gestite in silenzio, perché “non si deve disturbare” e fatica, oggi, a riconoscere i propri bisogni, confondendo l’autocontrollo con la forza. Chi invece, per non turbare equilibri fragili, ha imparato a leggere ogni sfumatura negli altri, diventando abilissimo nel comprendere gli stati d’animo altrui, ma perdendosi nel frattempo la possibilità di ascoltare davvero i propri.

…Apprendimenti quindi che non restano fuori da noi, ma ci abitano.

Diventano mappe interne, tracce affettive e cognitive che guidano, spesso in modo automatico, il nostro modo di sentire, di relazionarci, di stare al mondo. Queste mappe non sono sbagliate: sono adattamenti, risposte costruite in un contesto preciso, a partire da bisogni reali. E per un tempo, ci hanno protetto. Ma può accadere che, lungo il percorso, smettano di funzionare. Non perché siano da cancellare, ma perché non corrispondono più a chi siamo oggi o a ciò di cui abbiamo bisogno adesso.

Buona notizia: possiamo riscrivere queste mappe.

Il percorso psicologico, in quest’ottica, non mira a cambiare la nostra essenza, ma a riconoscere le mappe che abbiamo tracciato nel tempo, le nostre abitudini di pensiero e di sentimento. Il percorso psicologico diviene così un’occasione preziosa per rimettere in movimento significati bloccati e aprire nuovi spazi in cui scoprire chi siamo oggi. È un lavoro di consapevolezza e soprattutto, di contatto autentico: solo attraverso relazioni sincere, accoglienti e coerenti possiamo davvero mettere in discussione ciò che sembrava immutabile.

Le dinamiche familiari non ci definiscono, ma ci parlano.

E quando impariamo ad ascoltarle possiamo trasformarle in chiavi di accesso a nuove possibilità.

Alla fine, non si tratta di cancellare le origini. Ma di poter scegliere, oggi, chi vogliamo essere, partendo proprio da quelle voci che ci abitano da sempre.

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